Per un primo approccio alla poesia di Marino si propone il seguente testo (su gentile concessione di Paolo Spinello, aut. prot. 51979/2020):


Marin Adolescente

Tutta l’opera poetica di Marino Marin è strettamente collegata alle sue esperienze di vita. Egli nasce a Corcrevà di Bottrighe l’1 luglio 1860 e morì l’1 marzo 1951 ad Adria. Nella sua lunga vita il dolore e la sofferenza hanno avuto sempre il sopravvento rispetto ai pochi momenti di serenità e di pace che il poeta continuamente invocava. La malattia agli occhi e le tragedie familiari temprarono il suo spirito e condizionarono tutta la sua attività poetica. L’ambiente semplice e rustico in cui nacque e trascorse l’adolescenza, gli resterà sempre impresso e permeerà tutto il suo lavoro. Un ambiente povero dove tutto si presentava spontaneo e naturale, ma ricco di spunti per Marin, sensibilissimo “calabrone” che ronzava in quel minuscolo universo che lui chiamava “lillipuziano” e di fronte al quale ha sempre avuto l’atteggiamento di un adolescente. Infatti, anche nella sua ultima opera “Vecchie campane” composta a 88 anni, Marin intesse il leitmotiv tanto caro del “bimbo” che è in noi (“Le voci delle cose”):

 

E’ a lui che dicono le loro
parole buone certe cose vecchie,
rimaste intorno a noi rifatte
in meglio.

 

Andando a scuola si fermava ad osservare “la serraglietta delle tartarughe” perché, scriverà più tardi (“Narciso”III)

 

I cuori
semplici, in verità, sono urne piene
di gioia: basta un nulla che li sfiori;
che so ? l’ala d’un canto, il fruscio lene
d’una memoria, perché ne trabocchi
la gioia e si diffonda entro le vene”

 

Egli “passa e raccoglie” e viene attratto dalla cose più semplici (“Andando” da “Sprazzi di luce”):

 

… E’ mio quel poco o molto
che ha in sé la strada, la mia scuola prima;
qui, dove il bue non ara e l’uom non trima,
ha per me ogni stagione il suo raccolto.
La femminetta che ripassa il ranno
sui cenci, i cenci che raccatta asciutti,
a casa, il bimbo, tutto m’offre, tutti
m’offrono qualche cosa; e non lo sanno.


Da pittore a poeta

Ma il suo sogno era quello d’iscriversi all’Accademia delle Belle Arti perché voleva diventare un pittore, ma “quel caos di lime, di colori, di sentimenti, che avrebbero dovuto avere la loro naturale estrinsecazione artistica nella pittura, trovarono uno sfogo nella poetica: e divenni da pittore a poeta …” scrive nella sua inedita “Autobiografia”. Trasferisce nella poesia l’intima necessità di esprimersi. Studiò alacremente i classici latini e greci. In poco tempo s’impadronì delle loro lingue, conosceva il tedesco e il francese. Voleva leggere gli autori stranieri nella lingua originale. Apprenderà anche nozioni di spagnolo e imparerà l’inglese attratto, in particolare, dal mito di Prometeo preferendo la lettura del “Prometheus Unbound” (1819) di P. B. Schelley. Simbolo di quel periodo fu proprio il mito di Prometeo, l’emblema della rivolta dello spirito “che vuole uguagliarsi all’intelligenza divina”. Più tardi, scriverà in “Allora”:

Posa: una stolta posa a cui dal mio
goffo risibil piccioletto monte
Prometeuccio senza i segni in fronte
dei fulmini divini – indulsi anch’io …

Nel 1879 ottiene la patente di segretario comunale. E’ assunto dal Comune di Adria con la qualifica di dirigente dell’Ufficio Stato Civile. Ricoprirà tale incarico sino al 1914 quando viene collocato a riposo per l’aggravarsi della malattia agli occhi che lo porterà alla cecità. Ma com’era fisicamente Marino Marin ? Chi lo conobbe lo descrive come un uomo scontroso, poco affabile, diffidente con chi non conosceva. In seguito, però, si rivelava un animo nobile che, come scrisse C. Bellinello “considerava l’amicizia un sacramento e la sincerità un dovere”. Era di statura bassa (m. 1,66), il viso era largo, naso carnoso e grandi occhi sporgenti. In una carta d’identità del 1927 viene riportato un segno fisico particolare: Marin è un “amaurotico”, soffre cioè al nervo ottico o alla retina che non alterava l’aspetto esteriore dell’occhio. Primo Guarnieri riferisce che soffrì di “glaucoma bilaterale” e Giuseppe Grasso parla di un “tracoma oculare”. Il poeta, purtroppo, soffrì sin da giovane agli occhi e col tempo perse addirittura la vista.


Il matrimonio e il debutto letterario

Nel 1886 sposa Amabile Radi che aveva venticinque anni. Un rapporto amoroso e pieno d’affetto, ma Amabile, non comparirà mai nelle sue liriche perché l’unica voce femminile è sempre quella della madre che lo ha lasciato solo troppo presto. L’anno dopo nasce la prima figlia Rosa che diventerà insegnante elementare, poi Carlo nel 1888 morto a soli 33 anni, segue Mary nel 1891 morta a soli dieci mesi di vita, quindi Vittorio nel 1893 spentosi di malattia a 31 anni, e infine Matelda nata nel 1907 e morta nel 1993. Il debutto letterario avviene a ventisei anni, ma già prima aveva pubblicato alcune poesie in riviste e quotidiani. In questo periodo condivide le idee socialiste – utopiste che provenivano d’oltralpe. Collabora con l'”Avanti! della Domenica” e per la sua abilità oratoria e la preparazione culturale tiene conferenze e dibattiti. Si esalta nel declamare l'”Inno a Satana” di G. Carducci e si entusiasma parlando della “Marsigliese”. Il vero debutto letterario avviene nel 1892 con “Humus” edito a Milano dalla Libreria Editrice Galli. Il debutto è modesto e Marin non è completamente soddisfatto. Migliora il risultato con “Sonetti secolari” del 1896 anche se divise la critica. Nel 1898 arriva la raccolta “Voci lontane”, scartata dall’editore Galli di Milano e pubblicata da Barboni di Castrocaro. Non ottiene molti consensi e l’editore avrà il torto di non curare adeguatamente la diffusione del libro. Questo volumetto di poesie, anche se non è stato considerato benevolmente dalla critica, è importante perché segna l’inizio della evoluzione spirituale ed artistica del poeta. Marin abbandona le posizioni ideologiche iniziali. I toni ora sono dimessi, il suo accostarsi alle cose è pacato, ascolta le voci lontane (i ricordi) e le rivive in un’atmosfera colma di malinconia e di tristezza. Attorno agli inizi del secolo, aderì al gruppo simbolista genovese che annoverava tra gli aderenti Lucini, Alessandri, Varaldo, Giribaldi, ecc. Marino Marin non è solo l’uomo di cultura tutto intento a scrivere libri. Fa parte attiva di un cenacolo di intellettuali (tra i quali facevano parte Pietro Casellati, Angelo Bonandini, Jacopo Zennari, Silvia Bonandini Bergamasco, Aldo Guarnieri, Giuseppe Cordella, Antonio Cattozzo, Sebastiano Dal Passo, Egisto Sarti, Leone Vianello e Luigi Biasioli) e mantiene rapporti d’amicizia con le personalità più in vista di Adria come Ferrante Mecenati, Monsignor Filippo Pozzato, Giambattista Scarpari, Primo Guarnieri. Nel 1920 è nominato Cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia per meriti letterari, nel 1931 Commendatore. Partecipa al Comitato cittadino costituito per la realizzazione del Teatro del Littorio (ora Teatro Comunale), è uno dei promotori dell’edificazione, nella chiesa di San Nicola, di un monumento ai caduti in guerra. Nel 1928 è chiamato a far parte quale “socio onorario” del Circolo Unione di Adria.


Il 1938

L’anno in cui gli viene tributato il massimo degli onori è il 1938. Il 19 giugno si tenne una imponente manifestazione al Teatro Littorio dove erano presenti circa 2500 persone. Il saluto è portato dal Podestà dott. Berra e successivamente intervengono il prof. Ugo Zannoni ed il Federale Pizzirani. L’orazione ufficiale è tenuta da Ettore Cozzani. Vicino a Marin siede il segretario del P.N.F. Giovanni Marinelli, il prefetto di Bologna dott. Tiengo ed il poeta Diego Valeri. Alle autorità viene offerta l’antologia “Poesie scelte” di M. Marin curata dal prof. Zannoni e pubblicata dal Comune di Adria. Al poeta adriese viene concessa una delle prime tessere “ad honorem” del P.N.F. della Provincia di Rovigo mentre l’associazione Dante Alighieri informa di avere intitolato al nome del poeta una borsa di studio.


La ritrattazione

Marin arrivò anche alla ritrattazione che riguarda “Humus” e “Sonetti secolari” per i quali scrisse nel 1930: “… ne faccio qui debita ammenda, ritrattando tutto ciò che in quei libri ed in qualunque altro mio scritto suonasse offesa e fosse contrario ai principi insegnati dalla Chiesa …”. Cominciò ad apportare, così, modifiche e tagli sostituendo anche parte delle liriche mutilando in più parti i due volumi. Divenuto profondamente religioso, nel 1904 scrive “Luci ed ombre”, nel 1907 “Narciso”. Dopo il collocamento a riposo, viene nominato direttore del Museo e della Biblioteca Comunale e nel 1920 pubblica “Le opere e i giorni”. Dal 1930 al 1935 compose “Sprazzi di luce”, “La voce della gran Madre Antica” e “Alle soglie dell’infinito”.


Marin poeta del dolore

Marin cantore del Polesine, ma anche poeta della sofferenza, del dolore, del “male di vivere” e della fede. Tutto ciò accade tra il 1921 e il 1924 con la morte dei figli Carlo e Vittorio. Scrisse:

Il meglio di me se lo porta,
se lo portò via, tutto il meglio,
quel nero convoglio in due bare.

Dedicati ai due figli, pubblica i volumetti: “Espiazione” e “Rassegnazione”. Sono momenti durissimi sia per l’uomo sia per il poeta. Elabora la sua futura filosofia esistenziale: il dolore non è solo espiazione, è soprattutto un dono e

Se un bene è in noi la vita,
anche il dolore di per sé è un bene.

Tra convegni e conferenze sulla sua poesia, vince il concorso nazionale “Quaderni di Poesia” ed è inserito nell’Antologia dei poeti di quel tempo, ma deve difendersi dalle accuse del critico Ferdinando Palmieri che senza mezzi termini lo attacca duramente. Marin risponde pacatamente ed ha la solidarietà di Diego Valeri che dalla sua Piove di Sacco lo viene spesso a trovare. Dopo “Sprazzi di luce” nuove critiche. Viene accusato di perseguire una poesia “pascoliana” (non certo nel senso elogiativo del termine). Imperterrito, continua a scrivere in rima difendendo questo suo modo di esprimersi sebbene ormai la “cultura poetica dominante” dovrebbe averlo indirizzato a conformarsi alle nuove e aggiornate tendenze. A 75 anni scrive “Alle soglie dell’infinito” e a 88 pubblica “Vecchie campane” con cui vince il Premio Gastaldi. Fino a tarda età, quasi completamente cieco, si avventura ugualmente per le vie della sua città. Trova sempre qualcuno ad aiutarlo ad attraversare le strade e gli incroci e ad accompagnarlo in chiesa.


Dalla casa alla chiesa
“Dalla casa alla chiesa, dalla chiesa alla casa, all’ombra del campanile” ripeteva, ma Marin non fu solo un poeta isolato e solitario, che trattava temi semplici e, per alcuni critici, persino banali. E’ vero che fu sempre lontano dai grandi centri culturali nazionali, non si fece conoscere e gli editori non curarono molto la diffusione delle sue opere. La malattia che lo perseguitò per tutta la vita non gli permise di spostarsi dove forse avrebbe voluto. Ma la sua poetica e i suoi temi sulla vita, sul bene e sul male, aprono squarci infiniti di discussione. E neanche si può concludere affermando che la sua fede forte ed incrollabile, gli permise di superare sempre serenamente tutte le avversità (“le prove”) della propria vita. E’ vero che si affidava alla fede e che la sua religiosità spesso è di tipo consolatorio e di conforto. Ma si rese conto che di fronte alla tragedia del male e della morte, l’uomo è impotente e solo rimettendosi completamente nel mistero della volontà divina era convinto di risanare le ferite. Scoprì che (come affermava Nietzsche), nella nostra “dannazione” sta la nostra salvezza. Marin era cosciente della finitezza e del destino di morte che attende tutti noi. Raramente fu assalito dal dubbio e tormentato dagli interrogativi. Durante la tragedia familiare di Carlo e Vittorio, però, anche il poeta si sente abbandonato al suo destino, quasi tradito, proprio da chi egli aveva tanto supplicato e pregato e in chi aveva posto tutte le sue speranze. Emerge, allora, prepotentemente l’uomo con tutta la sua forza e le sue debolezze che non sa darsi ragione, non sa spiegarsi cosa gli stia succedendo. Non sa dare un senso alla tragedia della sua esistenza e si aggrappa disperato ad ogni possibile appiglio. In “L’Addio” (da “Espiazione”) Marin è ancora sorretto dalla speranza e scrive:

… se Dio vuol fare
per noi questo miracolo pietoso,
ce lo farà – misericordioso com’è …
e nella lirica “Al Mare” chiede che il proprio figlio Carlo sia salvato proprio dal mare stesso preso come simbolo di una potente forza capace di fare miracoli:
SALVALO: è un’anelante anima, come
sei tu, che implora; è anch’esso un cuor che batte: …
SALVALO: è il nostro sangue che si duole,
che viene meno in lui; SALVALO …

 

E’ un’anima di Dio, che cerca in fondo
a sé quel breve polso, e non lo trova;
ridonaglielo tu; rifalla nuova,
tu che sei gioia e palpito del mondo.
E’ nostro: è il fior ch’ai dì meno infelici
amor ci schiuse: il suo più gracil fiore;
strapparsi Egli non può dal nostro amore,
senza strapparci il cuor dalle radici.
SALVALO, adunque, è il fior del nostro seme,
della sostanza nostra. Oh ! II peso è tanto !
tanto il fardello !…

Marin prega ed implora inutilmente. Chiede in ginocchio che i propri figli siano risparmiati. Lo chiede a quel Dio al quale aveva affidato tutta la sua esistenza. Non sarà ascoltato. Nella lirica “Il sacrificio è consumato” prende atto che tutto si è compiuto non certo secondo il suo volere:

Gesù, che avesti il fragil tuo costato
trafitto in croce, tu dovevi allora;
io t’implorai, come chi è padre implora:
tu non mi udisti; e or tutto è consumato.

Signore, consumato è il sacrificio
della mia carne e del mio sangue; sotto
la veste io recherò, senza dir motto,
senza fare un lamento, il mio cilicio.

 

Nel 1941 muore la moglie Amabile ed il poeta rimane con la figlia Matelda che gli starà vicino sino al 1951 quando il primo marzo di quell’anno, dopo venti giorni di malattia (ad una trombosi sopraggiunsero complicazioni bronco polmonari), cessa di vivere.


Breve giudizio sulla sua poesia

Del poeta Marino Marin non esistono saggi critici. Ci sono resoconti di relazioni e molti articoli scritti su quotidiani, mensili e pubblicazioni locali. L’unico saggio critico pubblicato dopo quattro anni dalla morte del poeta è quello scritto da Primo Guarnieri (“M. Marin. Saggio critico”, Zanibelli, Adria 1955) dopo il quale, attorno al poeta adriese, per lunghissimi anni, è piombato un ingiustificato ed assurdo silenzio. Solo di recente prima con un libro edito da Apogeo editore di Adria dal titolo “… e a te lacrima il core … La poesia di Marino Marin” (2001) e poi con un convegno si è voluto tratteggiarne la figura come uomo e scrittore. In attesa di ulteriori iniziative, possiamo dire che Marin fu un poeta solitario ed isolato, lontano dai grossi centri culturali del suo tempo. Un “poeta provinciale” viene definito dallo storico adriese Antonio Lodo “fedele ai metri secolari del sonetto e della quartina (i più frequenti), della terza rima, della sestina, della saffica e altri ancora più rari, in uno scavo insistentemente – quasi accanitamente – centripeto, per certi versi solipsistico”. I temi ricorrenti sono il senso religioso, l’amore per la terra ed il lavoro dell’uomo. Marin era orgoglioso di riproporre in ogni suo lavoro poetico il proprio attaccamento alla rima contro il dilagare del “verso libero” e in questo suo atteggiamento sembra quasi rivendicare il provincialismo “quale unico erede della nostra tradizione lirica”. Tutto ciò non ha mai significato un rinchiudersi del poeta in se stesso, un inaridirsi con perdita della freschezza e del vigore dei suoi versi. Anzi, nella sua incessante e complessa opera fa sfoggio di una sapienza compositiva e di una sempre felice ispirazione che derivano da una interiore chiarezza e da una genuina e naturale vena poetica. “Marin a volte in certe sue descrizioni e visioni – ha affermato un altro cultore del poeta adriese, Gianfranco Scarpari – si esprime con maggiore efficacia del poeta Giovani Pascoli”. Le pagine migliori si trovano nelle opere della maturità quando, abbandonati gli echi classicheggianti, l’ispirazione erompe schietta e l’espressione è sincera. Per Marin, poeta della natura e del senso religioso, ad un certo punto della sua vita, la poesia diventa una necessità. Allora il canto d’amore si convertirà in un canto doloroso: lo sfogo di un animo straziato acquisterà gli accenti di un inno religioso. Nonostante le sventure, Marin riuscirà a percorrere la lunga parabola della sua esistenza con fermezza e profondità descrivendo un universo colmo di valori e convinto che non esiste un evento lieto senza quello luttuoso, ma anche il più tetro grigiore esistenziale può essere schiarito da pochi, quasi invisibili “sprazzi di luce”. Al di là dell’oceano, nel nuovo continente, pressapoco nello stesso periodo, una poetessa statunitense, nata nel Massachusetts nel 1830 dove morì a soli 56 anni, Emily Dickinson (scoperta dalla critica ufficiale molti anni dopo la sua morte), tormentata e rivoluzionaria, sfuggente ed elusiva, che traeva dalle sue angosce, dai suoi mutevoli stati d’animo, dai continui turbamenti materia per la sua grande poesia, concludeva le proprie considerazioni sull’esistenza allo stesso modo del poeta adriese Marino Marin. Due poeti diversi per impostazione “ideologica”. Un confronto che sembrerà azzardato. La fama della Dickinson ha valicato confini e barriere, Marin rimane un poeta provinciale. Ma li vogliamo accomunare, come esempio, per le loro valutazioni finali sul senso della vita. Nel 1864 la poetessa americana scrive:

I never felt at Home – Below –
And in the Handsome Skies
I shall not feel at Home – I Know –
I dont like Paradise –
Because it’s Sunday – all the time – …

[Non mi sono mai sentita a casa – quaggiù –
E non mi sentirò a casa – nel bel cielo,
Lo so – non mi piace il paradiso
Perché è sempre domenica ogni giorno …* ]

 

Pochi anni prima della morte (1882) completa il suo discorso poetico con questi versi:

 

The abdication of Belief
Makes the Behavior small –
Better an ignis fatuus
Than no illume at all –
[La rinuncia alla fede
Fa assumere comportamenti meschini –
Meglio un fuoco fatuo
Che una completa oscurità – * ]

 

(* traduzione di Gabriella Sobrino)

 

Qualsiasi riproduzione e/o duplicazione anche parziale del presente testo è autorizzata citando la fonte e l’autore.

 

Busto in Memoria di Marino Marin ad Adria
vai al luogo